Ceschi, un grande amico
di Sandro Bianconi
Ci eravamo conosciuti nei primi Sessanta alla fine degli studi: Raffaello a Berna, io a Friburgo, un’amicizia continuata poi per mezzo secolo con tante sfaccettature e variazioni, che in questi ultimi tre decenni si è approfondita ed è diventata salda e fraterna, intensa e autentica, fatta di poche cose essenziali, alla quale bastavano poche parole. A me bastavano il suo bello sguardo intelligente e acuto che svelava una persona di grande bontà, generosa, raffinata, e il suo sorriso semplice e luminoso. In un certo modo arrivavamo a dare per scontati o impliciti i nostri giudizi sulle molte cose che in questo paese non ci piacevano. Un modo tutto nostro di nutrire il rapporto di amicizia erano le lunghe, silenziose camminate sulle montagne della Leventina, della Verzasca e delle Centovalli: dentro di noi, da qualche parte, tutti e due avevamo care altre escursioni più famose, quelle di Robert Walser tra tutti, dei cui romanzi Raffaello era stato lettore appassionato. A questi ‘riti’ siamo rimasti fedeli sino all’ultimo, anche nei mesi della malattia: erano le salite da Ravecchia a Sasso Corbaro, oppure le variazioni di percorso sui sentieri del Locarnese, assieme a Erica, quando la conferma del passo spedito e sicuro era una sorta di esorcizzazione del male subdolo che comunque incombeva. Avevamo la consuetudine di chiamarci al telefono, una volta in pensione, la mattina verso le otto per passare in rassegna quanto accadeva a Bellinzona e Locarno e nel resto del cantone. Ma le telefonate erano soprattutto l’occasione per fare il punto sui lavori che stavamo conducendo assieme o individualmente: perché nell’amicizia con Raffaello ha avuto un ruolo centrale e originale il concetto di cultura e di lavoro culturale nella nostra realtà sociale.
Ambedue lontani dai miti della cultura d’élite o specialistica, abbiamo collaborato per decenni nella condivisa identità di intenti, metodologie e obiettivi. Le occasioni furono numerose: dalla ricerca sul “Ticino regione aperta” ai volumi miscellanei sulla “Storia del Ticino”.
Mi piace riprendere per questi lavori condivisi la definizione de “La mossa del cavallo” che piaceva assai a Raffaello: nella sua idea di storia e nella mia di linguistica, spunti, stimoli e “scarti” provenienti da altre discipline erano cose volute e necessarie.
Tutto aveva preso avvio dalla comune amicizia e stima per Virgilio Gilardoni: dopo la sua scomparsa, su invito dell’editore Casagrande, abbiamo preso in mano quella che sarebbe diventata la nuova serie dell’Ast che Gil aveva fondato e diretto.
Assieme prendemmo decisioni che sentivamo del tutto naturali e necessarie: rifondare una rivista democraticamente gestita che affondava le radici nel territorio alpino e prealpino, secondo le metodologie della ricerca universitaria.
Fu una scommessa ad alto rischio che, grazie al ruolo di Raffaello e al lavoro multidisciplinare di molti studiosi ebbe successo.
Quando lasciammo la redazione ad altri colleghi, Raffaello si limitò a dirmi, senza averne l’aria e nel tono di understatement che gli era proprio: “Possiamo dire di aver lavorato bene”.
La modestia, infatti, fu un’altra grande qualità di Raffaello, e ad essa univa la squisita pazienza, generosità e disponibilità, regali preziosi di cui ho avuto la fortuna di approfittare molte e molte volte, con i suoi incoraggiamenti e consigli.
Da qualche parte, tanto tempo fa Georges Moustaki cantava “Avec le temps tout s’efface”, un’affermazione con la quale uno in teoria può anche essere d’accordo.
Ma quando vivi il dolore per la perdita di una bella persona che ti è stata vicina e carissima, quando avverti il vuoto enorme che la sua scomparsa già lascia in te e nei tanti altri suoi amici, ti rendi conto che il breve o lungo tempo che ancora t’aspetta avrà senso solo perché il ricordo del sorriso di bontà dell’amico perduto è una luce indelebile nel cuore e nella memoria di tutti noi.
(la Regione Ticino, 21 giugno 2013)