di Marco Marcacci
Raffaello Ceschi è stato per chi scrive queste righe un maestro e un amico; anzi un maestro diventato con il tempo un amico.
Ho conosciuto Raffaello Ceschi nel 1970 quando egli, dopo un’esperienza dapprima quale maestro di scuola e poi come insegnante al ginnasio, approdava al settore medio superiore come docente di storia alla Scuola cantonale di commercio. Con un gruppo di studenti dell’ultimo anno organizzò un seminario: ci portò all’Archivio di Stato e ci insegnò a lavorare sui documenti storici. Quella che fino allora era stata per me una materia scolastica, si palesò di colpo come un vasto e affascinante terreno d’indagine e di studio per conoscere il passato, capire il presente e cercare d’immaginare i futuri possibili.
Con i suoi scritti, nei quali l’analisi dello storico si coniuga con uno stile narrativo che rende godibili i suoi libri e i suoi articoli, Ceschi è stato lo storico ticinese di gran lunga più letto ed apprezzato della seconda metà del Novecento, proprio perché sapeva unire, come pochi lo sanno fare, capacità di ricerca, facoltà di sintesi, spirito divulgativo, qualità di scrittura e pacatezza di giudizio.
È stato un ricercatore sempre attento a cogliere e a trasmettere con lucidità i dati essenziali degli argomenti che trattava. Aveva il senso della formula che cattura il lettore e chiarisce il concetto, come testimoniano i titoli di alcuni suoi libri e contributi: L’ordito e la trama: i rapporti tra storia nazionale e cantonale (1984); Franscini dall’utile al vero (1991), La radio ai montanari sull’esperienza della Radioscuola (1995), Nel labirinto delle Valli. Uomini e terre di una regione alpina: la Svizzera italiana (1999) fino alla sua ultima fatica Parlare in tribunale (2011), sul funzionamento (e il disfunzionamento) dell’apparato giudiziario tra Seicento e Ottocento.
Oltre alla pubblicazione dei suoi libri e di numerosi articoli su riviste e in opere collettanee, Raffaello Ceschi ha diretto, contribuendovi attivamente, due opere di ampio respiro: la Storia della Svizzera italiana (dal Cinquecento al Settecento) prolungata con la Storia del Canton Ticino (XIX-XX secolo) e l’edizione critica dell’Epistolario fransciniano.
Buona parte della sua attività di ricercatore e intellettuale – sottoforma di libri, articoli, conferenze, recensioni, partecipazione a dibattiti e a programmi radiotelevisivi – riguarda perciò il Ticino e i suoi rapporti con l’Italia e con il resto della Svizzera nell’Ottocento e nel Novecento. In questo ambito ha affrontato, rinnovandoli e rigenerandoli, quei temi che caratterizzano la Svizzera italiana e il suo paradigma storico: l’emigrazione; la condizione di minoranza presa tra appartenenza politica e indole culturale; il tormentato processo di costruzione del Cantone dal punto di vista politico, sociale e culturale. Ceschi non si chiudeva però mai in una prospettiva cantonticinese o confederata. Le letture, le relazioni personali intrecciate con colleghi di altre contrade e le ampie conoscenze storiografiche lo portavano a tracciare paralleli con analoghe realtà storiche alpine in Europa, a integrare nel suo approccio apporti di altre discipline umanistiche e sociali, senza tuttavia scadere nel metodologismo o nel “bricolage” interdisciplinare fine a se stesso.
Una decina di anni fa, l’Archivio Storico Ticinese, rivista della quale Ceschi è stato animatore, collaboratore e ispiratore nella fase successiva alla scomparsa di Virgilio Gilardoni, gli ha dedicato un incontro di studio che aveva per titolo La mossa del cavallo –suggerito da Ceschi stesso – che voleva alludere «a quel incedere del ragionamento che privilegia affondi laterali, sconfinamenti più o meno clandestini ... diversioni apparentemente dispersive e disorientanti, ma in realtà funzionali a una perlustrazione puntigliosa del contesto». Questo era un po’ il metodo di Ceschi: porre le domande giuste e cercare pazientemente le risposte.
Il catalogo di domande e il repertorio delle risposte che possiamo trovare nell’opera di Raffaello Ceschi, appartengono ormai al patrimonio culturale del paese; paese che con la sua scomparsa, si ritrova intellettualmente un poco orfano, come lo sono tutti coloro che lo hanno conosciuto e apprezzato e che hanno potuto onorarsi della sua amicizia. Forse, il miglior modo di rendergli omaggio è di continuare a “cavalcare” quei territori storiografici che ci ha insegnato a perlustrare con il suo inimitabile ingegno intellettuale, mai disgiunto dal senso di responsabilità del cittadino e dalla sottile autoironia dell’uomo libero.
(Corriere del Ticino, 21 giugno 2013)